"...a determinare il valore che un libro può avere per me, non ha alcun rilievo che sia famoso o di moda. I libri non ci sono perché per un certo tempo tutti li leggano e li dimentichino come una notizia di sport o di cronaca nera: i libri vogliono essere goduti e amati con calma e serenità..."

Hermann Hesse

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Appello ai naviganti!
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Questo angolo di bosco del web, è aperto alla collaborazione Seria e Costante con disegnatori, registi e quanti vogliono usare le mie storie come soggetti per la loro creatività. L'unione fa la forza, al momento non prometto denari - non ci sono neanche per il sottoscritto - ma tanta gloria!

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venerdì 14 maggio 2010

Il gotico padano

Molto più che un libro "di cinema"

E' quello che hanno scritto gli autori Ruggero Adamovit e Claudio Bartolini, sottotitolandolo esplicitamente "Dialogo con Pupi Avati", regista creatore di uno stile unico frutto di autorialità inconfondibile e della propensione al racconto del terrore mai enfatizzato nel mostrare truculenza, ma sempre condotto "per sottrazione" dell'elemento visibile, lasciando allo spettatore l'immaginazione di dare corpo alla paura.

Il libro è diviso in due parti, "Pupi Avati ha paura" e "Pupi Avati fa paura", dove la prima metà è un vero e proprio saggio dentro il saggio, tratta con metodo antropologico i luoghi dove tutto ha origine, ossia la Bassa Padana e il delta del Po, dove l'autore trascorre l'infanzia nel dopoguerra: gli usi, le superstizioni e le credenze di un mondo scomparso, quello della civiltà contadina, e in particolare della tradizione orale del sapere e del racconto tramandata attraverso la fola, una sorta di fiaba popolare narrata attorno al focolare nella stalla d'inverno e sull'aia d'estate, durante le pause dal lavoro nei campi. In queste fole c'era l'insegnamento morale per i più piccoli e spesso lo spavento, il gusto del macabro e la sospensione dalla dura realtà quotidiana mediante l'arte incantantrice affabulatoria.

Nella seconda parte si analizza con metodo e attenzione i titoli principali del gotico padano, si ricercano analogie e differenze con il prima e dopo Avati nella filmografia di genere italiana, la sua messa in scena e i meccanismi della paura adottati dal regista bolognese nei suoi film che hanno attraversato quattro decenni: La casa dalle finestre che ridono, Zeder, L'arcano incantantore, Il nascondiglio. Il tutto è affrontato con chiarezza e precisione e adatto anche ai "non addetti ai lavori". Non manca neanche un capitolo dedicato a quelle pellicole thriller-gotiche che l'autore ha sceneggiato e prodotto per registi allora emergenti (Macabro, Dove comincia la notte, La stanza accanto), che però avrebbe meritato maggior approfondimento a mio avviso, e in particolare un titolo troppo (ingiustamente) trascurato come "Voci notturne", tv movie del '95 di cui ho già parlato su questo blog, opera avatiana fino al midollo diretta da Fabrizio Laurenti, che per quanto televisiva nella produzione, ha una storia da brividi.
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Non è mia abitudine recensire libri - a parte i miei s'intende! - ma questo mi ha sorpreso perché da appassionato di questo Cinema avrei voluto scriverlo io, con le aggiunte e sottrazioni del caso, inoltre, come gli autori affermano in un'intervista web, colma un buco editoriale durato troppo a lungo: Pupi Avati non è solo quello delle commedie agrodolci, degli "amici del Bar Margherita" o "Regalo di Natale", per fortuna è anche il padre del gotico padano.
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Il libro è strutturato sugli interventi dello stesso regista raccolti durante una lunga intervista di quattro ore e riportati lungo tutto il testo.
Un plauso all'editore Le Mani, specializzato in cinema ma non solo, per la qualità del prodotto a un prezzo contenuto (15 euro, 244 pagg. compresi due curati inserti di foto a colori su carta lucida).


«Il cinema che sto facendo si confonde e si intreccia sempre più con la mia vita; ne faccio talmente tanto che ingombra tutta la mia giornata, per cui non so mai se sto girando un film o se sto vivendo. Ecco, per quanto mi riguarda, mi piacerebbe moltissimo morire in questa incertezza: sto morendo davvero o sto recitando una scena in cui muoio?»

Pupi Avati

domenica 2 maggio 2010

"Solo le cose che bruciano parlano"

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Questo è l'inquietante messaggio che lascia sui luoghi degli incendi il piromane che si firma "Cane Nero", che è anche il titolo del quarto film della serie "Crimini" andato in onda venerdì 30 aprile su RaiDue.
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E' la sera del suo compleanno e il commissario della Mobile Matteo De Rosa (Enzo Decaro) sta degustando in solitudine un calice di vino dall'amico ristoratore quando riceve una videochiamata: è Tony, ex collega cacciato dalla polizia perché accusato di corruzione, ha in mano una pistola puntata al torace. De Rosa raggiunge la casa ma quando arriva l'amico si è suicidato, negli ultimi tempi aveva lavorato al caso di un piromane che incendia cassonetti della spazzatura e che adesso ha alzato il tiro: il bersaglio è la polizia e il commissario stesso. Perché? Ad affiancarlo nell'indagine c'è la dottoressa Marina Testi (Vittoria Belvedere, nella foto) esperta "profiling", nonché vecchia fiamma di gioventù.
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Stavolta l'ho visto più per il dove che per il come.
Mi spiego meglio: l'ambientazione della vicenda è Torino ed ero curioso di vedere quali luoghi facevano da sfondo. Oltre alle solite vedute fugaci di ponti e di piazza Vittorio, c'è la sorpresa del mercato del Balon, dove Decaro si incontra un paio di volte con l'infiltrato della polizia, intorno il mondo colorato dei banchi e dei venditori, un paio di sequenze dove l'attore percorre la banchina dei Murazzi del Po alla guida della sua Alfa Romeo d'epoca e infine i due protagonisti a bordo del battello turistico che solca il fiume, insomma per fortuna non solo Mole!
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Riguardo il soggetto della storia scritto da Giorgio Faletti, è interessante e drammaticamente verosimile visto gli incendi dolosi di cui sono pieni le cronache, peccato che nella vicenda venga inserita un'altra indagine parallela che sa di riempitivo, quella del solito traffico di droga dall'Est... sarebbe stato meglio sviluppare il primo tema. Decaro non mi convince nel ruolo del commissario e la cosa si palesa nel finale che ribalta le carte in tavola, forse troppo.
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Non sono pentito della visione, anzi, in ognuno di questi film c'è la foto di una realtà italiana, romanzata ovvio, e la possibilità di rigenerarsi in una nuova storia e cast già dal prossimo episodio, e Voi che ne pensate?