E' quello che hanno scritto gli autori Ruggero Adamovit e Claudio Bartolini, sottotitolandolo esplicitamente "Dialogo con Pupi Avati", regista creatore di uno stile unico frutto di autorialità inconfondibile e della propensione al racconto del terrore mai enfatizzato nel mostrare truculenza, ma sempre condotto "per sottrazione" dell'elemento visibile, lasciando allo spettatore l'immaginazione di dare corpo alla paura.
Il libro è diviso in due parti, "Pupi Avati ha paura" e "Pupi Avati fa paura", dove la prima metà è un vero e proprio saggio dentro il saggio, tratta con metodo antropologico i luoghi dove tutto ha origine, ossia la Bassa Padana e il delta del Po, dove l'autore trascorre l'infanzia nel dopoguerra: gli usi, le superstizioni e le credenze di un mondo scomparso, quello della civiltà contadina, e in particolare della tradizione orale del sapere e del racconto tramandata attraverso la fola, una sorta di fiaba popolare narrata attorno al focolare nella stalla d'inverno e sull'aia d'estate, durante le pause dal lavoro nei campi. In queste fole c'era l'insegnamento morale per i più piccoli e spesso lo spavento, il gusto del macabro e la sospensione dalla dura realtà quotidiana mediante l'arte incantantrice affabulatoria.
Nella seconda parte si analizza con metodo e attenzione i titoli principali del gotico padano, si ricercano analogie e differenze con il prima e dopo Avati nella filmografia di genere italiana, la sua messa in scena e i meccanismi della paura adottati dal regista bolognese nei suoi film che hanno attraversato quattro decenni: La casa dalle finestre che ridono, Zeder, L'arcano incantantore, Il nascondiglio. Il tutto è affrontato con chiarezza e precisione e adatto anche ai "non addetti ai lavori". Non manca neanche un capitolo dedicato a quelle pellicole thriller-gotiche che l'autore ha sceneggiato e prodotto per registi allora emergenti (Macabro, Dove comincia la notte, La stanza accanto), che però avrebbe meritato maggior approfondimento a mio avviso, e in particolare un titolo troppo (ingiustamente) trascurato come "Voci notturne", tv movie del '95 di cui ho già parlato su questo blog, opera avatiana fino al midollo diretta da Fabrizio Laurenti, che per quanto televisiva nella produzione, ha una storia da brividi.
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Non è mia abitudine recensire libri - a parte i miei s'intende! - ma questo mi ha sorpreso perché da appassionato di questo Cinema avrei voluto scriverlo io, con le aggiunte e sottrazioni del caso, inoltre, come gli autori affermano in un'intervista web, colma un buco editoriale durato troppo a lungo: Pupi Avati non è solo quello delle commedie agrodolci, degli "amici del Bar Margherita" o "Regalo di Natale", per fortuna è anche il padre del gotico padano.
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Il libro è strutturato sugli interventi dello stesso regista raccolti durante una lunga intervista di quattro ore e riportati lungo tutto il testo.
Un plauso all'editore Le Mani, specializzato in cinema ma non solo, per la qualità del prodotto a un prezzo contenuto (15 euro, 244 pagg. compresi due curati inserti di foto a colori su carta lucida).
«Il cinema che sto facendo si confonde e si intreccia sempre più con la mia vita; ne faccio talmente tanto che ingombra tutta la mia giornata, per cui non so mai se sto girando un film o se sto vivendo. Ecco, per quanto mi riguarda, mi piacerebbe moltissimo morire in questa incertezza: sto morendo davvero o sto recitando una scena in cui muoio?»
Pupi Avati
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